Quebrada Mani, deserto di Atacama: intervista con l’arch. Calogero Santoro del team di ricerca – 13.000 anni fa l’uomo viveva nel deserto e ci costringe e a rivedere il pensiero sul popolamento del Sud America

Posted by on 1 Novembre 2013

Deserto di Atacama - valle della Luna foto "Arkeomount - Ande2011"

Questo mese anche in Italia è arrivata la notizia della divulgazione dei dati avvenuta questa estate in Sud America, a seguito di una ricerca condotta nel Deserto dell’Atacama. Un articolo sulla ricerca è stato pubblicato a questo link da Science Direct.. L’articolo si intitola “Late Pleistocene human occupation of the hyperarid core in the Atacama Desert, northern Chile”

Introduzione
Leggendo l’articolo abbiamo colto subito che lo studio è molto interessante e denso di nuove informazioni.
Nell’abstract dell’articolo si evince come pochi luoghi archeologici in America Meridionale contengano evidenze incontrovertibili in grado di attestare quando furono le prime fasi popolamento del continente. Largamente ignorati in questo dibattito, gli ambienti estremi sono stati considerati come barriere a questa prima onda di migrazione oppure valutati come privi di potenziale in considerazione alla loro abitabilità nel passato. Quebrada Maní (sito detto QM12), è situato in un paesaggio senza precipitazioni a 1240 metri s.lm. e a 85 km dall’Oceano di Pacifico ed è considerato un luogo iper-arido del Deserto di Atacama (sito nella parte più meridionale della Pampa del Tamarugal). Gli scavi a QM12 hanno consentito di recuperare diverse evidenze litiche, ossee, lignee oltre che resti di gasteropodi marini, pigmenti, fibre di pianta e anche un focolare. Sedici datazioni al radiocarbonio sono stati effettuati su resti di carbone, gusci marini, sterco animale, resti di pianta e legno e rivelano che l’occupazione ebbe luogo fra i 12.800 e gli 11.700 anni prima del presente. Risultati in grado di dimostrare che il Deserto di Atacama non era una barriera alla prima sistemazione americana e ci offrono indizi nuovi per capire la complessità culturale e la diversità del processo di popolamento  del Sud America durante l’Ultima transizione Glaciale-interglaciale.
Tra gli studiosi del team di ricerca (sul fondo dell’articolo trovate tutti i nomi dei ricercatori coinvolti) anche il prof. archeologo Calogero Santoro, che avevamo incrociato nel nostro reportage in Sud America del 2011. Lo abbiamo contattato via mail e abbiamo concordato un’intervista scritta dedicata ad Arkeomount che abbiamo il piacere di poter riportare (dopo nostra traduzione dallo spagnolo). Il prof. Calogero M. Santoro è archeologo dell’Istituto di Alta Investigazione (IAI) del Laboratorio de Arqueología y Paleoambiente dell’Universidad de Tarapacá (UTA) ed è anche parte del Centro de Investigaciones del Hombre en el Desierto (CIHDE –  www.cihde.com).

L’intervista
Ecco domande e risposte, mentre sul fondo trovate i nomi dei ricercatori coinvolti e delle istituzioni.

1)    Arkeomount (ARK): Cosa avete trovato a Quebrada Mani?

Prof Calogero Santoro (CS) “La cosa prima cosa che bisogna segnalare è che Quebrada Maní 12 è un sito archeologico con segni inequivocabili di attività umana a partire dall’ultimo periodo del Pleistocene e in pieno deserti di Atacama. Tuttavia, il dibattito sulla prima presenza umana in America è ancora molto forte.  La rilevanza storica del sito nasce dal tipo di evidenze incontrate, che che sono state datate in due distinti laboratori degli Stati Uniti per determinare con certezza l’epoca di occupazione. Allo stesso tempo oltre che “ricostruire” la storia umana in questo angolo iper-arido  del pianeta, è stato possibile comprendere quali erano  le condizioni ambientali dell’epoca e la loro relazioni con la storia della società umana. Ci troviamo di fronte ad un sito archeologico posto sulle rimanenze di un’antica terrazza miocenica che fu  circondata da una paleo umidità in grado di generare un habitat attraente per i cacciatori raccoglitori:   vi era acqua fresca ed una vegetazione che includeva certe specie arboree come la Myrica pavonis o l’Escallonia angustifolia, tipiche di ambienti con suoli umidi con torrenti permanenti di acqua fresca. Un ambiente attraente per vigogne e guanachi, nonché per altre specie minori. Il sito presenta uno straordinario grado di preservazione dei materiali organici (ad eccezione dei resti ossei) e delle attività lì realizzate. Questo ci ha permesso di recuperare durante gli scavi archeologici i resti di un notevole focolare  realizzato in una piccola fossa nel terreno e delimitato da una roccia e da materiale di deposito. Ci sono resti di legna modificata, pigmenti di ossidi di ferro di colore rosso (attualmente sono in via di analisi per identificarne i  componenti e la possibile provenienza), resti di piante e conchiglie marine associate ad attività che si svolgevano attorno a questo focolare, come quelle della lavorazione della pietra. Proprio queste attività, che contraddistinguono la vita dei cacciatori-raccoglitori, si perpetuarono per più di mille anni tra i 12.800 ed i 11.700 anni prima del presente, ed includevano la caccia dei camelidi, la preparazione di alimenti, l’uso di pigmento rosso e la selezione di piccole conchiglie marine – con orifizi naturali – per attività estetiche o rituali”.

2)    (ARK) Nelle news diffuse dalla stampa si parla di un sito “pit stop” o meglio definito “campo base”: crede che Quebrada Maní possa davvero essere stato un campo base 12mila anni fa?

CS:“Se fu un campo base o un sito logistico, ha poca importanza al livello di sviluppo attuale dell’investigazione scientifica. L’area scavata (circa 6 mq) e specialmente il tipo di scarti del lavoro realizzato sui materiali litici, segnala che si tratterebbe di un accampamento logistico. Quello che sì può affermare con sicurezza è che le persone che utilizzarono questo posto più di 12 mille anni fa, avevano una buona conoscenza di questo deserto in quanto già maneggiavano un circuito che permise loro di accedere, tramite scambio o per via diretta, a risorse dell’alta cordigliera (ossidiana) e dell’oceano Pacifico (conchiglie).
Conoscevano anche una vicina cava dalla quale ottenevano materiale litici di buona qualità. Significa che la gente che si accampava a Quebrada Maní non erano esploratori che visitavano o passavano da quel territorio per la prima volta. Sapevano perfettamente dove trovare le migliori risorse, dove trovare un buon posto per stabilire un accampamento come Quebrada Maní che, oltre essere vicino ad un corso d’acqua, aveva una posizione alta, dalla quale si vedeva sia la catena di montagne ad est (Sierra Moreno) sia la Cordillera della Costa. Dal punto di vista della futura investigazione, si continuerà a cercare e documentare la rete sociale che si articolò nel Deserto di Atacama, includendo i campi base  come i cimiteri e i siti di approvvigionamento di materia prima. Stimiamo , quindi, che sia possibile proporre la possibilità di trovare evidenze dei predecessori di questi abitanti che hanno dimostrato essere già pienamente possessori di questo nucleo iper-arido nel Deserto di Atacama”.

3)    (ARK) Cosa cambia nella nostra percezione della storia umana nel deserto di Atacama?

CS: “Anticamente si pensava che il Deserto di Atacama si configurava come barriera per l’insediamento umano, specialmente nelle epoche del popolamento iniziale, nel senso che si assumeva implicitamente che le attuali condizione di iper-aridità imperavano anche alla fine del Pleistocene quando inizia il processo di popolamento del Sud America. Quebrada Maní cambia questa percezione nel senso che abbiamo dimostrato che il nucleo iper-arido del deserto ebbe condizioni ecologiche adeguate per società di cacciatori-raccoglitori a causa di un regime di piovosità maggiore nel versante occidentale delle Ande che ha attivato il sistema di scorrimento delle acque superficiali e sotterranee fino alla costa del Pacifico. Conseguentemente, mentre il clima a livello locale continuava ad essere di carattere iper-arido, le correnti provenienti dalla cordigliera, in quantità quasi doppie rispetto alle attuali, generarono condizioni ottimali per la formazione di oasi e ambienti fluviali dove oggi si osserva un paesaggio deserto simile a quello della superficie di Marte.
Questi ambienti furono selezionati dagli abitanti di Quebrada Maní, che dimostrano aver sviluppato una conoscenza per adattarsi alla vita in un ambiente desrtico, grazie alla conoscenza dei luoghi chiave per rifornirsi di acqua, animali e materiali litici per elaborare gli strumenti di lavoro. L’eccellente stato di conservazione dei resti archeologici in questo ambiente iper-arido, ci permette comprendere i distinti ambiti della vita degli antichi cacciatori-raccoglitori e primi abitanti del deserto di Atacama e del Sudamerica. Per esempio, un manico in legno appartenente ad un attrezzo di caccia, del quale solitamente si conserva solo la parte litica, ci dice molto della conservazione possibile in questo ambiente.
Conseguentemente, il sito si configura come una parte in più del puzzle della storia umana dell’ Atacama in considerazione alle rotte migratorie che diedero origine al popolamento del Sud America.

4)    (ARK) Questa notizia supporta il paradigma che vede l’uomo nell’Atacama molti anni prima di quanto si pensasse?

CS: “Si, perché gli abitanti pleistocenici di Quebrada Maní non erano esploratori, vale a dire si trattava di popolazioni che conoscevano il paesaggio con i suoi mezzi e i luoghi strategici e quindi si può supporre che non furono i primi ad occupare il deserto di Atacama. Pertanto, stimiamo che sia possibile che esistano evidenze di siti archeologici anteriori a 13.000 anni fa.. Se questo verrà provato, saremo di fronte a siti contemporanei o anteriori a certi contesti precoci del Nord America e del Sudamerica, tra i quali si fa notare il sito di Monte Verde, nel Cile merdionale. Continuare a cercare siti archeologici nel Deserto di Atacama è una via interessante per capire le vie di migrazione da nord a sud ed anche dalla costa alla cordigliera e vice versa, ed i modi di vita dei primi abitanti del Sud-America. Nonostante le date di QM12 sono coetanee ad altri luoghi dell’area andina, come Quebrada nella costa peruviana o Tuina 1 nella regione di Antofagasta in Cile, questo è l’unico sito con un datato pleistocenico in un nucleo iper-arido del Deserto di Atacama. Chiaramente questo ci fa riflettere sulla capacità adattiva, sull’ingegno e sulle elezioni culturali che possedevano i primi colonizzatori del continente sud-americano”.

5)    (ARK): Parlando di metodologia, quali sono i mezzi e le tecniche che dovete utilizzare quando lavorate in un deserto come l’Atacama?

CS: “Una cosa molto importante per l’approcio metodologico è la complessa stratigrafia in relazione col processo di formazione del sito a causa dell’azione umana e dei fattori erosivi tipici del Deserto di Atacama (vento con effetti deflazionistici e formazione di dune). I livelli di occupazione non sono chiaramente differenziabili nei primi 30 centimetri di suolo, che è lo strato in cui troviamo i registri archeologici. Questo accade sia per effetto dell’azione degli  abitanti dell’epoca sia per i processi di formazione di suolo bloccati  in superficie per uno strato di pietre e sabbia grossa, conosciuto come “pavimento” del deserto.
Abbiamo scoperto, mediante datazioni multiple  al C14, che i resti archeologici sono compresi in una matrice di sabbie, limo e concrezioni di sale, non differenziabili mediante studi tecnologici litici o a prima vista a causa delle differenze nella meteorizzazione degli artefatti. Non abbiamo potuto ancora scoprire con chiarezza quali furono i fattori che intervennero nel processo di formazione del sito, ma sospettiamo che la stessa attività umana che lì aveva luogo fu in parte responsabile di questo processo di rimozione dei sedimenti (per calpestamento). Qualcosa che non abbiamo ancora approcciato sono gli effetti dei terremoti nell’area di studio. Nel nord del Cile i terremoti sono comuni e non si sono fatti studi rispetto alle loro conseguenze nel movimento verticale ed orizzontale delle vestigia archeologiche, specialmente considerando gli strati più morbidi (e sciolti) che sono le matrici arenose degli strati stessi”.

Le istituzioni
L’investigazione in oggetto è stato un lavoro interdisciplinare possibile grazie alla compartecipazione di diversi attori, studiosi, istituti e fondazioni. Il prof. Santoro è parte di un team che comprende molti studiosi che ci piace citare per completezza di informazione: Claudio Latorre (Departamento de Ecología, Pontificia Universidad Católica de Chile e Institute of Ecology & Biodiversity -IEB), Calogero M. Santoro (Instituto de Alta Investigación, Universidad de Tarapacá e Centro de Investigaciones del Hombre en el Desierto CIHDE), Paula C. Ugalde, Eugenia M. Gayóc e Daniela Osorio (Centro de Investigaciones del Hombre en el Desierto CIHDE), Carolina Salas-Egaña (Departamento de Antropología, Universidad de Tarapacá), Ricardo De Pol-Holz (Earth System Science Department, University of California at Irvine e Departamento de Oceanografía, Universidad de Concepción, Casilla), Delphine Joly (Instituto de Alta Investigación, Universidad de Tarapacá e Centro de Investigaciones del Hombre en el Desierto -CIHDE), Jason A. Rech (Department of Geology and Environmental Earth Science, Miami University, Oxford) e Donald Jackson (Departamento de Antropología, Universidad de Chile, Santiago), mentre i fondi sono stati concessi dal Fondo Nacional de Ciencia y Tecnología. Lo studio p stato inoltre patrocinato da tre enti ovvero Centro de Investigaciones del Hombre en el Desierto -CIHDE), Universidad de Tarapacá e Institute of Ecology & Biodiversity (IEB).